Due ciclisti un po’ scomposti, un sorpasso avventato di un’auto: la velocità fa perdere il controllo del mezzo, che girando su se stesso, cadde in un fosso.
Estratto dall’abitacolo tritato di quella che era una Isotta Fraschini, il guidatore del mezzo, Filippo Tommaso Marinetti, più o meno illeso, si sentì un uomo diverso, che necessitava della liberazione dagli orpelli decadentisti e liberty della società in cui viveva, e progettò di coinvolgere tutte le sue conoscenze e amicizie in uno sforzo profuso per chiudere i ponti con il passato, distruggere musei e biblioteche, e cominciare ad elogiare la frenesia, il progresso, le folle agitate e il movimento che si fa energia pura, senza passato e radici che la rallentino.
Era nato il Futurismo, una irriverente e saettante virgola nel mare della cultura italiana, che forse ambiva a diventare un punto, da cui riscrivere qualcosa di totalmente nuovo.
Rimangono spunti che divennero arte, dettami che hanno tentato di sovvertire un ordine ben preciso, degli ideali così utopici da diventare affascinanti: la prima avanguardia italiana del ‘900 ha lasciato nell’immaginario e nel costume sociale molti spunti, che in questo 2024 sono comparsi a più riprese, sia in campo cinematografico che nel culmine della mostra allestita alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, che ha cercato di tracciare ed abbracciare tutte le correnti e i capricci futuristi andandone a cogliere più sfumature e idee possibili.
Quello che appare chiaro è che il Futurismo non è stato solo una corrente pittorica e artistica, ma ha provato ad essere un costume, una filosofia, che ha abbracciato tutti gli ambiti della vita delle persone.
Il loro modo di comunicare ha influenzato la pubblicità di tutto il ‘900, il tentativo di abolire la pastasciutta nel loro Manifesto della cucina futurista un proto-dibattito sulla cucina intesa come esperienza, sperimentazione di forme e consistenze.
E nel cinema?
Non è sopravvissuto molto di quello che può essere definito come uno dei più antichi movimenti di cinema d’avanguardia europeo, che possiamo far risalire ai primi anni ’10 del 1900; è uno degli ultimi Manifesti dei futuristi quello del cinema, che però venne subito identificato come perfetto sunto dell’essenza dell’avanguardia di Marinetti: la settima arte non aveva infatti “memoria”. Era una corrente senza tradizioni e schemi, e per questo ottima per la guerra al passatismo e per veicolare al meglio i concetti surreali, dinamici e paroliberi che gli artisti avrebbero dovuto trasmettere. La pellicola non sarebbe più stato un esercizio di stile basato su sovrimpressioni e “trucchi” prospettici, ma essi stessi sarebbero stati rivalutati per scandagliare l’animo umano, rendere tangibile un pensiero, per rappresentare un’idea di energia e distorsione.
Così scrive il Manifesto:
“Se vorremo esprimere lo stato angoscioso di un nostro protagonista invece di descriverlo nelle sue varie fasi di dolore daremo un’equivalente impressione con lo spettacolo di una montagna frastagliata e cavernosa.
I monti, i mari, i boschi, le città, le folle, gli eserciti, le squadre, gli aereoplani, saranno spesso le nostre parole formidabilmente espressive: “L’universo sarà il nostro vocabolario. Esempio: Vogliamo dare un esempio di stramba allegria: rappresentiamo un drappello di seggiole che vola scherzando attorno ad un enorme attaccapanni sinché si decidono ad attaccarcisi”.
Come detto la maggior parte delle opere sono andate perdute, ma alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, in un’ala dove si incontra un’installazione immersiva dedicata a Umberto Boccioni e al suo Forme uniche della continuità nello spazio, e un rapido excursus sulla produzione grafica e pubblicitaria di Fortunato Depero e colleghi, c’è una sala dove viene proiettato quella che a tutti gli effetti è una delle poche testimonianze rimasteci del cinema futurista: Thaïs, del 1917 diretto da Anton Giulio Bragaglia con scenografie di Enrico Prampolini.
Il progetto per il collettivo era ambizioso, pensando anche ai precedenti lavori: nel 1916 Arnaldo Ginna, coadiuvato da Marinetti, mise in scena Vita futurista, che altro non era che un disturbo della quiete pubblica importunando i clienti dei caffè borghesi di Firenze.
Perciò la storia della contessa Nitchevo alias Thaïs nei suoi romanzi, cacciatrice di nobili sposati da mandare in rovina che incontra le resistenze del conte di San Remo, è un grande salto.
La sottotrama racconta di Bianca, amica di Nitchevo che è segretamente innamorata del conte corteggiato, e che nel tentativo di andare a riprenderselo, perde la vita in una corsa a cavallo.
Amareggiata per la fine dell’amica, Thaïs pensa di uccidersi con un gas velenoso, salvo ripensarci quando ormai è troppo tardi per scappare.
Tragedia, delirio, onirico e realtà. In una scenografia spezzata e distorta, il dramma futurista non riuscì però a incontrare il favore del pubblico, che ne riconobbe l’impegno e l’intento, ma che rimase molto scettico sulla resa e sulla prova degli attori.
Insomma, il cinema era davvero il mezzo giusto, ma probabilmente al tempo non era abbastanza conosciuto dagli interpreti da poterlo padroneggiare al meglio.
Tuttavia, delle sperimentazioni futuriste sul montaggio e sulla pellicola, troviamo molti lasciti nel cinema tedesco, con le scenografie psichedeliche e zigzaganti de Il gabinetto del dottor Caligari e l’imponente Metropolis, che prese ispirazione dai modelli architettonici di Antonio Sant’Elia e Mario Chiattone.
Il Futurismo è stato, nel bene o nel male, precursore di tantissime suggestioni che ancora oggi sono fonte di dibattito, spaziando dalla cucina, alla cultura, all’arte, alla vita di tutti i giorni.
Che ironicamente, avrebbe voluto riscrivere l’universo distruggendo l’immobilismo, i libri, i musei, e che alla fine, si ritrova ad essere esso stesso una diapositiva, una mostra suggestiva, energia incanalata e spenta, che lascia intendere solo in parte, come i vecchi rimasugli delle pellicole dei loro film, ciò che avrebbe voluto essere il Futurismo e che alla fine, possiamo solo immaginare dai loro manifesti paroliberi.
Riccardo Fioroni