(…) Considerateli tutti e due, il mare e la terra; non scoprite, forse, una strana analogia con qualcosa che vi sta dentro? Perché, come questo oceano spaventoso circonda la terra verdeggiante, così nell’anima dell’uomo sta una insulare Tahiti, piena di pace e di gioia, ma chiusa tutt’intorno dagli orrori di una vita malnota. (H. Melville, Moby Dick).
Non è difficile immaginarsi il Capitano Achab, protagonista del Moby Dick di H.Melville, bagnato e logorato che vigila sulla poppa mentre la sua baleniera caracolla in un mare arrabbiato, che cerca di smascherare tra la schiuma delle onde, il bianco latteo della balena che gli ha divelto una gamba.
E’ il classico esempio di eroe tragico: un simbolo confuso, in crisi d’identità, all’inseguimento di un obiettivo ostinato. Un eroe che vede il riflesso delle sovversioni rinascimentali delle istituzioni tradizionali come lo Stato e la famiglia, a favore di più grandi rinnovamenti, che però, nella loro transizione, appaiono più come demoni da combattere che alleati a cui lasciarsi andare.
L’eroe così, si fa carico di tutte le perplessità e le inquietudini, diventando una figura agitata, ossessionata, che ha come unico punto di riferimento la propria coscienza: l’unica a cui può fare appello e che deve filtrare la realtà, deducendo la precarietà di essa e dei legami.
Questo personaggio così cupo e determinato, il Capitano Achab, è il più famoso di una “figliata” di eroi tragici e dannati che hanno come matrice William Shakespeare, che con il suo concetto di dramma, ha riscritto l’interiorità dei personaggi, usando la parola non più solo come un viatico per descrivere ciò che circonda il personaggio, ma anche per esternare i grovigli interiori, a rendere complesso e tridimensionale anche il personaggio teatrale, e non solo gli avvenimenti esteriori.
Il Capitano Achab è ispirato ai tormenti del Re Lear, storicamente un leggendario sovrano della Britannia che sarebbe vissuto poco prima della fondazione di Roma, ma soprattutto, teatralmente, una delle più riuscite tragedie shakesperiane.
Da quando giunge la notizia che il Re vuole abdicare, e che dividerà il regno tra le sue tre figlie in proporzione a quanto amore mostreranno verso di lui, inizierà un intreccio di storie e di eventi che finiranno per rivelare al Re la vanagloria che aveva scaturito la sua decisione, e porterà ad una cruenta battaglia tra Inghilterra e Francia da cui non usciranno vincitori, ma solo vinti.
La tragedia è ripresa da Alessandro Preziosi nel suo “Aspettando Re Lear”, che è una sapiente messa in scena delle vicende del re britannico, a cui però viene unita come ispirazione anche la penna di Samuel Beckett e del suo celeberrimo “Aspettando Godot”, andando ad arricchire il già denso valore simbolico dell’opera: il difficile rapporto tra padre-figli, tra Uomo e Natura, e sulla perdita e il conseguente ritrovamento di valori, che vengono analizzati dallo spettatore attraverso la follia, la solitudine, il potere che annichilisce.
In un contesto di caos e di smarrimento, le opere d’arte di Michelangelo Pistoletto, come la rotondità del suo Terzo Paradiso, sembrano così avulse eppure così centrate nell’esplicitare l’opera.
Sembra di essere spettatori e al contempo partecipi; le superfici ondulate e sinuose della scena sembrano vorticose scale mobili che accompagnano timidi pensieri, qualche espressione di diniego e di stupore, di rabbia e commozione. Qualche occhiata ad una coltrice sfatta, ad un vestito sgualcito, ad uno sguardo perso e a uno che osserva e scruta.
Pistoletto, con i suoi specchi e le sue forme, è la cassa di risonanza di un concetto affrontato anche da Alessandro Preziosi: “Ho immaginato un Re non semplicemente arrivato alla fine dei suoi anni, ad un passo anagraficamente dalla morte, ma piuttosto spinto dalle circostanze e dalla trama a cercare nella maturità, e non nell’età, il tassello conclusivo della propria vita. L’impazienza che accompagna il rocambolesco circolo di eventi in cui Re Lear travolge prima di tutto sé stesso e quindi gli altri, mi ha suggerito di creare uno spazio mentale teatralmente e scenicamente reso materico dalle opere in scena”.
Questo percorso tra la florida carriera artistica di uno dei più grandi esponenti dell’Arte Povera, e le allucinazioni di Re Lear, ha un sottile richiamo alla condizione umana anche nel gesto che, nel corso dell’opera, vedrà i protagonisti privati dei loro indumenti iniziali, il che unisce sia il concetto del Terzo Paradiso pistolettiano, ovvero dell’equilibrio tra Uomo e Natura, e il concetto di nudità dell’uomo davanti agli eventi e al pensiero, restituiti nell’impattante perdita del vestiario che contraddistingueva, solo esternamente, anche il ceto sociale dei protagonisti dell’opera: “A teatro ho condiviso la messa in scena dei presupposti del Terzo Paradiso, la terza fase dell’umanità, che si realizza nella connessione equilibrata tra l’artificio e la Natura. L’uomo deve cercare di non essere debitore alla Natura di ciò che indossa: il senso dell’abito, del superfluo, dello stretto necessario sono tematiche di Michelangelo Pistoletto che porto a teatro. L’uomo nella sua nudità trova sé stesso, e così anche noi attori durante lo spettacolo veniamo privati dei vestiti, per farci vedere per quello che siamo”.
L’ arte come amplificatore di cognizione e situazioni umane, comunicate in un modo spiazzante e non convenzionale, ricorrendo ad espedienti scenici e di pensiero, è uno dei modi in cui il lascito di Shakespeare si è adattato per poter essere ancora oggi compreso e conosciuto. Un grande innovatore del palco, della linguistica inglese e mondiale, con un lascito di più di 1.700 parole nuove adattate alla lingua anglofona e di opere che hanno reso celebri svariati modi di dire adottati dal linguaggio comune, che si rinnova costantemente sondando nuovi modi per poter essere comunque totalizzante e conservare il suo messaggio anche a più di 400 anni di distanza.
Può però accadere, talvolta, che usufruire di tutto questo, non sia possibile: ce lo ha insegnato la pandemia, che ha portato l’artista o il fruitore a doversi adattare, a dimenticare i palchi e le grandi scenografie e trovare posto tra piccole inquadrature, a telecamere un po’ sgranate del computer.
D’altro canto, le connessioni digitali hanno creato un ventaglio di grandi prospettive per tutto ciò che concerne il mondo online, e ci hanno permesso di poter pensare ad una panacea di legame, anche attraverso una videochiamata, o perché no, anche di un videogioco.
Sullo sfondo dello spericolato, violento e delirante Grand Theft Auto, uno dei videogiochi open world più famosi di sempre, Samuel Crane e Penny Grylls, firmano una delle associazioni di parole più strane viste ultimamente: Grand Theft Hamlet.
Cosa c’entra una delle opere più famose e longeve del drammaturgo inglese, con uno videogioco dove più che la storia in game, l’obiettivo da sempre è quello di sfuggire alle famigerate 5 stelle della polizia che ci inseguirà con tutte le sue forze di terra e di cielo?
L’idea di questo film nasce proprio una situazione di lockdown in piena pandemia, in cui Samuel Crane, attore rimasto senza lavoro in quel periodo ed il suo amico Mark Oosterveen, giocando a GTA Online, durante l’ennesima fuga dalla polizia, si imbattono in un teatro ai bordi di un piccolo deserto, in una zona di nessuno. Per deformazione e per gioco, decidono di cominciare a declamare alcuni versi di Otello in questa cattedrale nel deserto. Fino a che, non hanno un’intuizione: non potendo più farlo fisicamente nei teatri, perché non mettere in scena Otello ma dentro il videogioco?
E’ la scintilla che serve per far accendere un’avventura ai limiti del surreale dove, tra reclutamenti impervi di alieni arabi e attori impegnati in sparatorie con altri videogiocatori che hanno tentato di “sabotare” la messa in scena, si arriva ad una live su varie piattaforma di questa “compagnia” di attori in game che hanno portato Amleto su un videogioco.
Ma oltre che un pretesto divertente, è stato anche un importante spunto di riflessione sulla vita, sull’affettività e su come un periodo segnante del nostro secolo può aver influito sulla vita di ognuno di noi. Tutte cose che, quando si accedeva al gioco, rimanevano all’esterno, con la commedia che diventava non solo un pretesto ludico, ma un vero e proprio viatico per trovare la pace e la distrazione da situazioni più grandi delle nostre fragilità.
Il film è una machinima, ovvero una riproduzione cinematografica digitale fatta con uso di computer-generated-image (CGI) usando in tempo reale giochi interattivi con una grafica 3D. È una forma di cinema sperimentale che Samuel Crane riproverà nel 2022 con una versione light dell’esperimento shakesperiano intitolato We Are Such Stuff as Dream Are Made On dove in singolo cercava di recitare per più tempo possibile monologhi dell’Amleto senza essere strapazzato dagli altri giocatori in-game.
Che sia da un videogioco, o attraverso l’arte figurativa, ci sono delle cose belle che sopravvivono alla prova del tempo, e diventano quasi necessarie per noi. La realizzazione del dramma, il teatro, sono una messinscena di ciò che in realtà siamo; le maschere che salgono sul palco non fanno altro che rispecchiarci, enfatizzarci, ma con lo scopo di farci pensare, di metterci nella condizione di interrogarci con un dubbio o un riso appena amaro.
E quelle veramente azzeccate non vivono solo il tempo di una rappresentazione e dell’applauso finale, come molte farfalle della commedia: vivono anche oltre, nella dimensione del multimediale, dell’arte trascendente, si travestono da cose vicine a noi, ci ricordano sempre che le domande sono sempre meglio delle risposte, e ci lasciano quel dubbio e quella riflessione necessaria per riconoscerci sempre, ogni giorno. Si, anche mentre state devastando intere città e rapinando auto su GTA.
Riccardo Fioroni