Fedro non ha paura del cinema contemporaneo: vecchi e nuovi modi di comunicare

Quando qualcosa di nuovo o di non troppo sondabile entra nel nostro quotidiano e di uso normale, può incuriosirci come spaventarci: quando vedevo i primi smartphone, devo ammetterlo, non credevo avrebbero avuto vita facile: con questi schermi touch, difficili da pigiare, mentre invece era tutto così rapido con i tastini…

…beh direi che non ci ho colto. Ma sono in buona compagnia perché, se dovessimo parlare di predizioni errate, anche Platone nel suo Fedro non le mandò a dire al giovane ateniese che dà il nome al libro:

«Le lettere cagionano smemoramento nelle anime di coloro che le hanno apprese, perocché più non curano della memoria, come quelli che, fidando della scrittura, per virtù di strani segni di fuori si rammentano delle cose, non per virtù di dentro e da sé medesimi. Dunque trovato hai la medicina, non per accrescere la memoria, sibbene per rivocare le cose alla memoria. E quanto a sapienza, tu procuri ai discepoli l’apparenza sua, non la verità…» (Platone, Fedro)

La scrittura come nuovo male dei tempi, che aiuta a dimenticare, e che non può avere prevalenza sull’oralità. Eppure, oggi entrambe convivono splendidamente. Quello che spesso ci lascia perplessi è il fatto che qualcosa che conosciamo bene cambi, in favore di qualcosa che non conosciamo bene o che ci sembra lontano. Anche il linguaggio parlato, è qualcosa che possediamo, ma che cambia costantemente per adattarsi alle richieste e alle domande dei tempi che passano. Se oggi, in un mondo digitale per connettersi al mondo si fa ricorrente uso degli anglicismi, è chiaro che per farmi capire anche dall’altra parte del mondo, dovrò necessariamente conoscere un codice comune.

Una volta un linguaggio cambiava per necessità: ad esempio i pastori dell’etnia Ganci che vivevano alle Canarie, per poter comunicare tra loro pericoli o informazioni tra le vaste piane delle isole, senza correre il rischio di non essere capiti, adattarono la loro lingua ad un codice fischiato, il silbo gomero, che oggi è un bene immateriale UNESCO.

Trovare nuovi modi di comunicare è qualcosa che accade volontariamente o meno, ma è un processo costante e dinamico, che incontra non solo il linguaggio inteso come parole da comunicare, ma anche come esperienza visiva e multimediale.

Anche il cinema si è adattato sempre a stili e bisogni diversi, per poter rimanere un tramite tra la società e la sua espressione; ad un certo punto il treno che arrivava in stazione non bastava più.

E quindi fu il sonoro, e poi arrivò il montaggio, poi i punti di vista e le inquadrature. Una “Fibonacci” di piccoli tasselli che hanno portato il cinema a diventare liquido, mutevole, non solo opera mastodontica che rispecchiava una classe sociale, ma anche uno sguardo discreto e nascosto sulle nostre vite, sulle vite di ognuno di noi, come se fossimo seduti a vedere qualcosa di tangibile e vicino, o il suo stesso contrario.
La perdita di contorni ben definiti fa si che il cinema presti e si faccia prestare espedienti narrativi anche dalla letteratura, dall’arte, per potersi adattare anch’essa, e restituire il miglior messaggio in base ai tempi e ai bisogni.

Al Festival del Cinema di Roma, ad esempio, ci si è potuto imbattere in un reso e in un prestito: sapete cosa hanno in comune Alfred Hitchcock, Alejandro González Iñárritu e Alberto Angela?
La tecnica del piano sequenza. Virtuosa tecnica cinematografica che prevede una sola ripresa per tutta una sequenza, generalmente piuttosto lunga, spesso quanto un film intero. Orson Welles aprì le porte, con Quarto Potere, ad una tecnica complessa che non prevedeva nemmeno un errore, poiché i tagli, nel piano sequenza, non sono contemplati, tutto in unico ciak. It’s win or go home.

Alberto Angela, nella puntata di Meraviglie prodotto dalla Rai e dedicata a Pompei, impegnerà la troupe con un piano sequenza di ben 2 ore e 10, coprendo 3 Km a piedi e in auto all’interno del Parco Archeologico di Pompei, trascendendo la divulgazione frontale e rendendo l’episodio una camminata intima e curiosa alla scoperta di una delle più grandi testimonianze del nostro passato, fianco a fianco con archeologici e studiosi, dandoci l’impressione anche a noi di camminare, e non solo di assistere, a quei resti ghiacciati nel tempo.

Dalla meraviglia, all’introspezione: in Nel tempo di Cesare, di Angelo Loy, la realtà non è stupore e scoperta, ma è ricordo e testimonianza, un occhio fugace su un mondo che esiste e che non abbiamo mai visto. Un racconto ritmato dallo scorrere del Tevere, di due famiglie pescatrici di anguille che vivono appena sotto le lingue d’asfalto del Grande Raccordo Anulare, aprendoci i loro barconi e facendoci entrare con garbo nella pazienza, negli occhi stanchi, nelle mani callose e nei capelli brizzolati di persone che hanno dedicato la loro vita alla pesca, e che scorrono anche esse, lentamente, come il fiume su cui hanno sempre vissuto.

L’espediente narrativo è molto simile a quello del memoir, dove ricordi, stralci di vita e vicissitudini non appartengono solo a personaggi di spicco e rilievo (quello che è il lavoro dell’autobiografia, in genere), ma che restituisce una dignità e una collocazione nel tempo anche a personaggi più frugali, almeno all’apparenza. Dopotutto, una storia da raccontare non ha una bocca preferita da cui uscire, e sicuramente non guarda il ceto sociale o il blasone; cerca solo qualcuno che le voglia raccontare, e qualcuno che le voglia ascoltare.

Se poi le volete scrivere, vedetevela voi con Platone.

Riccardo Fioroni

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